mercoledì 19 dicembre 2012

Sulle ali dell'amore.

SULLE ALI DELL’AMORE.

Chiusi gli occhi e ripensai a quando eravamo ancora insieme.
Con un sorriso ricordai il giorno in cui la trovai: così piccola, così tenera, tremante, abbandonata sul ciglio della strada. Un frullar d’ali aveva attirato la mia attenzione, e quegli occhioni dolci mi avevano costretto ad accostare; come dire di no ad una creaturina tremante e pigolante? Così la presi con me, coprendola con una coperta per asciugarla; la pioggia incessante non risparmia nessuno, e non ha pietà nemmeno di un esserino indifeso.
Dopo, quando mi occupavo di lei già da tempo, mi trovai a credere che se non mi fossi fermato, quel giorno di Dicembre, non ce l’avrebbe mai fatta. Quel pensiero mi faceva provare ancor più tenerezza nei suoi confronti.
Capii subito che era inutile illudersi di riuscire a tenerla provvisoriamente, sino a quando non avessi ritrovato il suo padrone, non potendo immaginare come qualcuno potesse abbandonare qualcosa di così fragile. Ma anche se l’avessi trovato, non gliel’avrei mai consegnata: mi aveva già stregato.
Avendo una stanza in più la disposi in modo confortevole per la creatura: cuscini e coperte sparsi per la stanza, un piumone in un angolo; non avendo spesso ospiti sarebbe andata bene, non avrei fatto fatica a tenerla nascosta, per cui potevo anche farla stare comoda.
La prima notte che dormì sola pianse, spaventata, e così le notti seguenti. La sentivo piangere sommessamente, e ad ogni singhiozzo il mio cuore sussultava; puntualmente finivo con l’andare a consolarla, in barba a ciò che mi avevano consigliato tutti riguardo l’educazione di cani e gatti –sebbene lei non fosse né l’uno né l’altro, ed io mi fossi astenuto dal metterli a corrente di quale essere si trattasse.
Provavo a consolarla coccolandola un po’, dandole buffetti affettuosi sul capino, e puntualmente crollavo accanto a lei appena si calmava.
Andammo avanti così per anni.
Lei aveva smesso di piangere la notte, ma facendomi quello sguardo a cui sapeva non avrei resistito mi soggiogava ogni volta; presto iniziai a soffrire di mal di schiena, dormendo spesso per terra. Ma per lei questo ed altro.

Sorrisi,  ricordando le varie avventure vissute insieme.
Come quella volta che, vedendo una finestra aperta, volò via. La seguii con gli occhi, dolorosamente deciso a lasciarla libera, se lei l’avesse voluto. Ma quando cadde mi precipitai giù, tirandola fuori dal cespuglio di rovi in cui si era incastrata. Il morbido piumino delle ali era rovinato, e alcune penne spezzate, ma non sembrava aver subito altri danni. Nonostante ciò non aprì gli occhi per vari giorni, ed io mi ero ormai rassegnato a consultare uno specialista, quando sentii la sua testa strusciare contro la mia mano, e potei specchiarmi di nuovo in quegli occhi caldi di vita.
Da quel giorno non uscì più da quella casa.
Si limitava a svolazzare nel giardino sul retro in primavera, alzandosi di un paio di metri, per giocare con gli uccellini e gli scoiattoli, che inizialmente scappavano spaventati, ma presto fecero l’abitudine, e divennero compagni di giochi; in inverno, poi, se ne stava rintanata al calduccio nella veranda coperta, accanto a me, ad ammirare la neve che cadeva leggera.
Passammo anni meravigliosi insieme…

Aprii gli occhi e riportai alla mente le immagini di quei giorni. Quanto mi mancavano le letture invernali, lei che dava le spalle al camino e io seduto sul divano a leggerle di avventurieri, pirati, marinai, re e regine che regnavano su lande di cristallo o paludi oscure o regni di nuvole…preferivo raccontarle di luoghi da fiaba, cosicché non si rattristasse, sentendomi descrivere luoghi realmente esistenti che lei non avrebbe mai visto.
Facevamo tutto insieme, disastrando spesso casa, ma divertendoci. Era come avere a che fare con una bimba piccola, una bimba piccola da…un po’ di anni. Non imparò mai a parlare, ma scoprii presto che era tutt’altro che stupida: mi aiutava in cucina, e, per quanto riuscisse, nei lavori di casa. Mi portava la cartella alla porta se la dimenticavo, mi veniva a svegliare se stavo per far tardi al lavoro, mentre si accucciava vicino a me la domenica, stando attenta a non disturbarmi. Non si lamentava quando rimaneva a casa da sola, né i miei vicini hanno mai protestato per rumori o versi strani provenienti da casa mia. In effetti, a parte il suo solito pigolio, non l’avevo mai sentita esprimersi in altro modo.

Poi un giorno successe.
Era una domenica, per cui non mi accorsi che qualcosa non andava finchè non entrai nella sua stanza, dopo l’ora di pranzo. La primavera stava per arrivare, faceva ancora fresco, ma quando  la accarezzai per svegliarla notai che era sudata, e ansimava come se non riuscisse a respirare. Sollevai le coperte e la stanza fu invasa da una nuvola di piumino:  le ali erano spiumate e le penne secche e sfibrate. Se ne stava andando.

Rimasi con lei fino alla fine, e fino alla fine affogai nei suoi occhi chiari, l’unica cosa che ancora sprizzava vita.
Poi, una notte, la sentii muoversi e pigolare sotto le mie braccia, e svegliandomi capii che era giunto il momento.
Avevo provato di tutto, consultato internet, parlato con dottori e passato giorni chiuso in biblioteca, ma…inutile, completamente. Non ero riuscito a fare niente, e la cosa mi distruggeva.
Per cui, quando mi strofinò la mano, iniziai a piangere automaticamente. Mi strappai le lacrime dal volto, volevo vederla nei suoi ultimi minuti; non un’immagine sfocata, ma lei, in tutta la sua bellezza –perché sì, dopo anni, non avrei saputo come altro definirla. Anche con la piume rovinate e la pelle spenta, ai miei occhi era bellissima.
La abbracciai con slancio, preoccupato di farle male, ma con un dolore al petto che solo così potevo sperare di lenire. Affondai il volto nei suoi capelli e piansi tutte le mie lacrime.
Non andartene. Non andartene.
Era l’unica cosa che pensavo, e dallo sguardo che mi rivolse capii che sapeva esattamente cosa volevo dirle, come se potesse entrare nella mia testa, e capii che per lei andava bene così.
Mi diede un’ultima occhiata, e per l’ultima volta mi persi nei suoi occhi, entrai in essi così profondamente, desiderando di perdermici, che per poco non mi lasciai sfuggire le sue ultime –e uniche- parole.
“Grazie.”
Solo questo mi disse, prima di spegnersi per sempre, ma in quel “grazie” lessi tutto l’affetto che aveva provato nei miei confronti, tutta la pena provata nell’andarsene. Sorrise, e tutto finì.
Ci fu come un’esplosione di piume candide come la neve, poi più nulla.

E ora sono qui, anni dopo la sua scomparsa, senza essere riuscito ad amare nessun altra come ho amato lei, sapendo che, se fosse qui, sarebbe triste di sapere che non sono riuscito a superare la sua scomparsa. E, ora che anch’io sono arrivato alla fine, me ne rammarico. Ma dicono che l’amore è una cosa al di fuori del nostro controllo. Quindi che colpa ne ho se ho amato un essere dolcissimo, che mi donava allegria e gioia di vivere, mi consolava quando ero triste e gioiva con me dei miei successi? Importa qualcosa, poi, che non fosse un essere umano? Di certo non a me.
Spero soltanto di andarmene in fretta, per ritrovarla al più presto, dall’altra parte, se un “al di là” esiste veramente. Anche se non credo di andare dove si trova lei, sarebbe chiedere troppo.
Sarebbe il Paradiso, e non ho fatto nulla per meritarlo. Nulla, se non amarla.


I macchinari iniziarono a risuonare velocemente, aumentando il ritmo dei “bip”, e l’uomo alzò gli occhi al cielo, fissando il soffitto. La vita dell’uomo era giunta alla fine, e i medici non erano riusciti a fare nulla. Nessuna cura sembrava fare effetto, e lui stesso sembrava rassegnato già dall’inizio.
Tra i pannelli bianchi e le luci accecanti gli sembrò di iniziare ad intravedere una figura familiare… due occhi luminosi,  un sorriso appena accennato, da cui traspariva gioia pura…sorrise.
“Sei tornata…” pensò.
I macchinari smisero il loro “bip”, e ci fu silenzio.
E se ne andò così, sorridendo, come l’uomo più felice del mondo.
Una lacrima scese lenta dagli occhi ormai spenti, solcando il suo viso e cadendo sul cuscino.
Accanto ad una piuma candida.