SULLE ALI
DELL’AMORE.
Chiusi gli occhi e
ripensai a quando eravamo ancora insieme.
Con un sorriso ricordai
il giorno in cui la trovai: così piccola, così tenera, tremante, abbandonata
sul ciglio della strada. Un frullar d’ali aveva attirato la mia attenzione, e
quegli occhioni dolci mi avevano costretto ad accostare; come dire di no ad una
creaturina tremante e pigolante? Così la presi con me, coprendola con una
coperta per asciugarla; la pioggia incessante non risparmia nessuno, e non ha
pietà nemmeno di un esserino indifeso.
Dopo, quando mi
occupavo di lei già da tempo, mi trovai a credere che se non mi fossi fermato,
quel giorno di Dicembre, non ce l’avrebbe mai fatta. Quel pensiero mi faceva
provare ancor più tenerezza nei suoi confronti.
Capii subito che era
inutile illudersi di riuscire a tenerla provvisoriamente, sino a quando non
avessi ritrovato il suo padrone, non potendo immaginare come qualcuno potesse abbandonare
qualcosa di così fragile. Ma anche se l’avessi trovato, non gliel’avrei mai
consegnata: mi aveva già stregato.
Avendo una stanza in
più la disposi in modo confortevole per la creatura: cuscini e coperte sparsi
per la stanza, un piumone in un angolo; non avendo spesso ospiti sarebbe andata
bene, non avrei fatto fatica a tenerla nascosta, per cui potevo anche farla
stare comoda.
La prima notte che
dormì sola pianse, spaventata, e così le notti seguenti. La sentivo piangere
sommessamente, e ad ogni singhiozzo il mio cuore sussultava; puntualmente
finivo con l’andare a consolarla, in barba a ciò che mi avevano consigliato
tutti riguardo l’educazione di cani e gatti –sebbene lei non fosse né l’uno né
l’altro, ed io mi fossi astenuto dal metterli a corrente di quale essere si
trattasse.
Provavo a consolarla
coccolandola un po’, dandole buffetti affettuosi sul capino, e puntualmente
crollavo accanto a lei appena si calmava.
Andammo avanti così per
anni.
Lei aveva smesso di
piangere la notte, ma facendomi quello sguardo a cui sapeva non avrei resistito
mi soggiogava ogni volta; presto iniziai a soffrire di mal di schiena, dormendo
spesso per terra. Ma per lei questo ed altro.
Sorrisi, ricordando le varie avventure vissute
insieme.
Come quella volta che,
vedendo una finestra aperta, volò via. La seguii con gli occhi, dolorosamente
deciso a lasciarla libera, se lei l’avesse voluto. Ma quando cadde mi
precipitai giù, tirandola fuori dal cespuglio di rovi in cui si era incastrata.
Il morbido piumino delle ali era rovinato, e alcune penne spezzate, ma non
sembrava aver subito altri danni. Nonostante ciò non aprì gli occhi per vari
giorni, ed io mi ero ormai rassegnato a consultare uno specialista, quando
sentii la sua testa strusciare contro la mia mano, e potei specchiarmi di nuovo
in quegli occhi caldi di vita.
Da quel giorno non uscì
più da quella casa.
Si limitava a
svolazzare nel giardino sul retro in primavera, alzandosi di un paio di metri,
per giocare con gli uccellini e gli scoiattoli, che inizialmente scappavano
spaventati, ma presto fecero l’abitudine, e divennero compagni di giochi; in
inverno, poi, se ne stava rintanata al calduccio nella veranda coperta, accanto
a me, ad ammirare la neve che cadeva leggera.
Passammo anni
meravigliosi insieme…
Aprii gli occhi e
riportai alla mente le immagini di quei giorni. Quanto mi mancavano le letture
invernali, lei che dava le spalle al camino e io seduto sul divano a leggerle
di avventurieri, pirati, marinai, re e regine che regnavano su lande di
cristallo o paludi oscure o regni di nuvole…preferivo raccontarle di luoghi da
fiaba, cosicché non si rattristasse, sentendomi descrivere luoghi realmente
esistenti che lei non avrebbe mai visto.
Facevamo tutto insieme, disastrando spesso casa, ma divertendoci. Era come avere a che fare con una bimba piccola, una bimba piccola da…un po’ di anni. Non imparò mai a parlare, ma scoprii presto che era tutt’altro che stupida: mi aiutava in cucina, e, per quanto riuscisse, nei lavori di casa. Mi portava la cartella alla porta se la dimenticavo, mi veniva a svegliare se stavo per far tardi al lavoro, mentre si accucciava vicino a me la domenica, stando attenta a non disturbarmi. Non si lamentava quando rimaneva a casa da sola, né i miei vicini hanno mai protestato per rumori o versi strani provenienti da casa mia. In effetti, a parte il suo solito pigolio, non l’avevo mai sentita esprimersi in altro modo.
Facevamo tutto insieme, disastrando spesso casa, ma divertendoci. Era come avere a che fare con una bimba piccola, una bimba piccola da…un po’ di anni. Non imparò mai a parlare, ma scoprii presto che era tutt’altro che stupida: mi aiutava in cucina, e, per quanto riuscisse, nei lavori di casa. Mi portava la cartella alla porta se la dimenticavo, mi veniva a svegliare se stavo per far tardi al lavoro, mentre si accucciava vicino a me la domenica, stando attenta a non disturbarmi. Non si lamentava quando rimaneva a casa da sola, né i miei vicini hanno mai protestato per rumori o versi strani provenienti da casa mia. In effetti, a parte il suo solito pigolio, non l’avevo mai sentita esprimersi in altro modo.
Poi un giorno successe.
Era una domenica, per
cui non mi accorsi che qualcosa non andava finchè non entrai nella sua stanza,
dopo l’ora di pranzo. La primavera stava per arrivare, faceva ancora fresco, ma
quando la accarezzai per
svegliarla notai che era sudata, e ansimava come se non riuscisse a respirare.
Sollevai le coperte e la stanza fu invasa da una nuvola di piumino: le ali erano spiumate e le penne secche
e sfibrate. Se ne stava andando.
Rimasi con lei fino alla
fine, e fino alla fine affogai nei suoi occhi chiari, l’unica cosa che ancora
sprizzava vita.
Poi, una notte, la
sentii muoversi e pigolare sotto le mie braccia, e svegliandomi capii che era
giunto il momento.
Avevo provato di tutto,
consultato internet, parlato con dottori e passato giorni chiuso in biblioteca,
ma…inutile, completamente. Non ero riuscito a fare niente, e la cosa mi
distruggeva.
Per cui, quando mi
strofinò la mano, iniziai a piangere automaticamente. Mi strappai le lacrime
dal volto, volevo vederla nei suoi ultimi minuti; non un’immagine sfocata, ma
lei, in tutta la sua bellezza –perché sì, dopo anni, non avrei saputo come
altro definirla. Anche con la piume rovinate e la pelle spenta, ai miei occhi
era bellissima.
La abbracciai con slancio,
preoccupato di farle male, ma con un dolore al petto che solo così potevo
sperare di lenire. Affondai il volto nei suoi capelli e piansi tutte le mie
lacrime.
Non andartene. Non
andartene.
Era l’unica cosa che
pensavo, e dallo sguardo che mi rivolse capii che sapeva esattamente cosa
volevo dirle, come se potesse entrare nella mia testa, e capii che per lei
andava bene così.
Mi diede un’ultima
occhiata, e per l’ultima volta mi persi nei suoi occhi, entrai in essi così
profondamente, desiderando di perdermici, che per poco non mi lasciai sfuggire
le sue ultime –e uniche- parole.
“Grazie.”
Solo questo mi disse,
prima di spegnersi per sempre, ma in quel “grazie” lessi tutto l’affetto che
aveva provato nei miei confronti, tutta la pena provata nell’andarsene.
Sorrise, e tutto finì.
Ci fu come
un’esplosione di piume candide come la neve, poi più nulla.
E ora sono qui, anni
dopo la sua scomparsa, senza essere riuscito ad amare nessun altra come ho
amato lei, sapendo che, se fosse qui, sarebbe triste di sapere che non sono
riuscito a superare la sua scomparsa. E, ora che anch’io sono arrivato alla
fine, me ne rammarico. Ma dicono che l’amore è una cosa al di fuori del nostro
controllo. Quindi che colpa ne ho se ho amato un essere dolcissimo, che mi
donava allegria e gioia di vivere, mi consolava quando ero triste e gioiva con
me dei miei successi? Importa qualcosa, poi, che non fosse un essere umano? Di
certo non a me.
Spero soltanto di
andarmene in fretta, per ritrovarla al più presto, dall’altra parte, se un “al
di là” esiste veramente. Anche se non credo di andare dove si trova lei,
sarebbe chiedere troppo.
Sarebbe il Paradiso, e
non ho fatto nulla per meritarlo. Nulla, se non amarla.
I macchinari iniziarono
a risuonare velocemente, aumentando il ritmo dei “bip”, e l’uomo alzò gli occhi
al cielo, fissando il soffitto. La vita dell’uomo era giunta alla fine, e i
medici non erano riusciti a fare nulla. Nessuna cura sembrava fare effetto, e
lui stesso sembrava rassegnato già dall’inizio.
Tra i pannelli bianchi
e le luci accecanti gli sembrò di iniziare ad intravedere una figura familiare…
due occhi luminosi, un sorriso
appena accennato, da cui traspariva gioia pura…sorrise.
“Sei tornata…” pensò.
I macchinari smisero il
loro “bip”, e ci fu silenzio.
E se ne andò così,
sorridendo, come l’uomo più felice del mondo.
Una lacrima scese lenta
dagli occhi ormai spenti, solcando il suo viso e cadendo sul cuscino.
Accanto ad una piuma
candida.